Arbitri di calcio: professionisti o dilettanti?

Una volta, accanto al nome dell’arbitro, subito dopo la sezione di provenienza, veniva dato risalto alla professione del direttore di gara, che di volta in volta si leggeva essere quella di impiegato, consulente, promotore finanziario, persino medico.
Tutto ciò stava a significare come, a margine di un’attività ufficiale e ben remunerata, come quella di arbitro di calcio, i giudici delle competizioni avessero anche un altro lavoro, magari meno redditizio, ma, per così dire, full-time (a differenza del ruolo di direttore di gara, che li teneva occupati ufficialmente solo la domenica).
Negli anni a venire, sia a fronte delle vigorose istanze degli interessati, che di errori di giudizio più o meno gravi della categoria, a volte sospettata (non a torto, come si dimostrò più avanti) di mala fede, si cominciò a teorizzare la possibilità di istituire una sorta di professionismo per i direttori di gara, con tutte le onori (tutele economiche, mediche, previdenziali) e oneri (responsabilità e sanzioni) collegati a questo status.

A dire il vero, non tutti gli sportivi possono considerarsi dei professionisti: in Italia, infatti, le federazioni che contemplano il professionismo sono solamente la FIGC (calcio), la FIP (pugilato), la FCI (ciclismo), la FMI (motociclismo), la FIG (golf) e la FIP (pallacanestro).
D’altro canto, circoscrivendo il discorso al mondo del calcio, è quantomeno singolare che le partite – di qualsiasi livello, quindi anche fra calciatori professionisti – siano dirette da giudici di gara dilettanti.
Non esiste, infatti, e non ̬ mai esistito in Italia, uno status di professionista Рn̩ di fatto n̩ tantomeno di diritto Рper la categoria degli arbitri, nonostante si siano affermate, nel tempo, figure di altissimo spessore, che hanno dedicato a questa occupazione la parte preponderante della loro vita lavorativa.
L’ultima pronuncia giurisprudenziale in merito è la n. 10867 del 12 maggio 2009, giorno in cui la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione diede una vigorosa spallata a tutti coloro i quali si aspettavano una pur minima apertura al professionismo degli arbitri di calcio.

Con ricorso presentato innanzi al Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro, un arbitro aveva chiesto di accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la Federazione (in subordine, con l’AIA) per tutto il periodo in cui aveva esercitato l’attività di direttore di gara.
Le argomentazioni addotte poggiavano su tre punti fermi: a) il fatto di aver svolto l’attività di arbitro in qualità di associato all’AIA-FIGC; b) l’aver percepito uno stipendio fisso mensile; c) la totale dedizione all’attività sportiva, con conseguente interruzione di quella lavorativa.
Da un punto di vista squisitamente giuridico, sarebbe stata sufficiente l’istanza sub a) a decretare l’insuccesso del ricorso, dal momento che l’arbitro, in quanto facente parte di un’associazione sportiva, ha l’obbligo accettare le regole della Federazione, che non contemplano le ipotesi di professionismo per i direttori di gara.

Le questione, difatti, più che vertere sul professionismo per così dire formale, offre importanti spunti di riflessione sul tema del professionismo di fatto, che, in linea teorica, può essere individuato anche dai giudici statali, laddove ravvisino la sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’art. 2094 c.c. (prestatore di lavoro subordinato).
Per giungere a siffatta conclusione, oltre a a) la subordinazione socio-economica del prestatore di lavoro, sono necessarie b) la soggezione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, c) la collaborazione, intesa come inserimento dell’attività lavorativa nel quadro di un complessa organizzazione economica ed, infine, d) la continuità del rapporto.
Orbene, se tutte queste caratteristiche si possono scorgere in taluni atleti professionisti dello sport, per la giurisprudenza non è ancora il momento per procedere al passo successivo del riconoscimento dei medesimi diritti in capo agli arbitri, poiché, mentre il calciatore rimane un soggetto legato a doppio filo con la federazione sportiva e la società di appartenenza, nel caso del direttore di gara verrebbe a mancare proprio questo secondo elemento, che riconduce l’attività di direzione di gara in tutto e per tutto nell’onnicomprensiva attività associativa, quindi non subordinata.
La sentenza di cui si è appena dato conto, anche se certamente non innovativa, né tantomeno coraggiosa sul tema trattato, costituisce l’ultima statuizione della Suprema Corte in merito.
Il fatto che risalga al 2009, però, la dice lunga sulla sua attuale rispondenza del diritto sostanziale alla realtà del calcio, fatta di arbitri che di dilettante hanno ormai ben poco.

La disponibilità “full-time”, così come la retribuzione continuata e periodica, nonché l’inserimento in un organigramma ben strutturato, fanno dei direttori di gara una sottospecie di giudici, i quali, invece di risolvere le controversie di diritto dallo scranno di un’aula, provano a dirimere quelle tecniche in mezzo al campo, dove, paradossalmente, il “valore della causa” (si pensi alla finale di Champions League o a quella di un Mondiale) supera di gran lunga il valore medio dei contenziosi pendenti di fronte ai tribunali italiani.

Senza voler entrare nel merito dell’autorevole ultima pronuncia dei Giudici di Piazza Cavour, basti qui rilevare come, ad avviso di chi scrive, sia necessaria una rivisitazione completa delle normativa inerente ai direttori di gara, dando ascolto alle istanze sempre più vigorose da parte delle Autorità del mondo del Pallone (vedi i recenti appelli di Joseph Blatter), in ossequio ai principi basilari del diritto, in base ai quali è indispensabile offrire dignità giuridica a nuove situazione di fatto, che si discostino in maniera evidente da formule e modelli ormai appartenenti ad un passato – o meglio, ad un calcio – che non c’è più.

Avv. Carlo Rombolà

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