Editoriale - Razzismo e prova TV: perché non usarla anche sugli spalti?

Sabato 26 aprile, allo stadio El Madrigal di Vila Real, si è consumato l’ennesimo episodio di matrice razzista, con protagonista involontario il difensore del Barcelona Dani Alves, a cui un tifoso della squadra di casa del Villareal, ha lanciato una banana, in segno di disprezzo per il colore della pelle del calciatore.
Il brasiliano, reo di avere un colore della pelle un po’ più scura del tollerabile per gli infimi standard di valutazione dell’homus razzista medio, ha reagito con grande prontezza di spirito, sbucciando il frutto e mangiandolo davanti alle telecamere, subito prima di battere un calcio d’angolo.
Dal punto di vista mediatico, è stata questa, giustamente, la scena che ha conquistato le prime pagine dei giornali, provocando una sorta di tam tam che, in poco tempo, ha favorito la nascita di gruppi su Facebook e hashtag su Twitter in difesa del giocatore, come quello inaugurato dal compagno di squadra di Dani Alves, il centravanti brasiliano Neymar, intitolato #SomosTodosMacacos (siamo tutti scimmie), in cui l’attaccante ha pubblicato una sua foto nell’atto di mangiare una banana, per solidarietà con l’amico preso di mira.







Da un punto di vista giuridico, o, per meglio dire, di fantagiustizia, l’episodio apre le porte ad una serie di considerazioni.Partendo dalla personale considerazione in base alla quale l’individuo che esprime il proprio disprezzo nei confronti delle persone di colore lo fa perché si sente, in qualche modo, protetto dall’anonimato che gli viene garantito dall’essere parte di una moltitudine, è plausibile ritenere che l’uso della telecamera, utile sin qui solo per scovare i comportamenti scorretti dei calciatori non visti dall’arbitro, possa far comodo anche per individuare chi, fra il pubblico, si lascia andare a tali deprecabili comportamenti, non degni di quella società civile di cui tutti proclamiamo di far parte?
Non è intenzione di chi scrive proporre un’ulteriore estensione della responsabilità oggettiva verso le società di calcio (ma sarebbe meglio estendere, come si vedrà meglio fra un attimo, il concetto a tutti gli altri sport) i cui tifosi, anche singolarmente, si macchino di comportamenti intolleranti e palesemente razzisti, ma è di tutta evidenza che il problema esiste, ed ovviamente non solo in Spagna. Paese, quello iberico, dove peraltro la società valenciana ha già dato un buon esempio di giustizia fatta in casa, dal momento che il tifoso autore del lancio della banana è stato prontamente identificato dal circuito di telecamere interno e sanzionato sia con il ritiro della tessera di socio del club che con il divieto di accesso allo stadio a vita.
Il problema del razzismo offre comunque una grande varietà di estrinsecazione, ed, in questo senso, perde di valore anche il commento sopra espresso, secondo cui i razzisti sono soliti dare sfogo alle loro pulsioni perché protetti dal fatto di essere in gruppo.
Negli Stati Uniti, infatti, Donald Sterling, proprietario di una delle franchigie più forti dell’NBA, i Los Angeles Clippers, è stato colto in fallo durante una registrazione audio in cui esortava la sua fidanzata a non farsi fotografare o andare allo stadio con persone di colore (in particolare, lo aveva infastidito il fatto che la donna avesse pubblicato su Instagram una foto che la ritraeva insieme a Magic Johnson, una leggenda del basket americano).
In questo caso, ci hanno pensato i giocatori stessi a dare un segnale forte ed inequivocabile contro il razzismo, seppur proveniente dal proprietario del club: i cestiti hanno protestato togliendosi le magliette della squadra durante il riscaldamento e rimanendo in tuta in segno di dissenso con le frasi pronunciate dal loro patron.
Tutto questo dimostra che, laddove non arrivano (o non esistono) le norme di legge, il buon senso e l’ironia sono sempre l’alternativa migliore, soprattutto per la soluzione di un problema culturale prima ancora che giuridico, come la discriminazione razziale.

Avv. Carlo Rombolà

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