Trattato di Cotonou: quando il Calcio si incontra con il Diritto Internazionale

Ogni manuale di diritto internazionale pubblico classifica il trattato come la principale fonte del diritto internazionale insieme alla consuetudine, e può essere definito come l’incontro fra due manifestazioni di volontà da parte di soggetti di diritto internazionale, volte a creare, modificare o estinguere norme giuridiche, naturalmente internazionali. Ancora, sono multilaterali quei trattati (o convenzioni, che dir si voglia) che regolano materie di interesse generale o collettivo, e vengono stipulati da una pluralità di Stati.

E’ quest’ultimo il caso della Convenzione di Cotonou, firmata in Benin il 23 giugno del 2000, che ha preso il posto della precedente Convenzione di Lomè in tema di rapporti di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) e quelli dell’Unione Europea.
L’obiettivo dell’accordo era quello di ridurre la povertà nelle aree interessate, favorendo la progressiva integrazione dei paesi ACP nell’economia mondiale. Nella pratica e fra le altre misure previste, vi è la tendenza a ridurre al minimo, se non eliminare, qualunque barriera commerciale fra gli Stati firmatari.

Per la realizzazione di tale obiettivo, peraltro condivisibile in un’ottica di abbattimento degli ostacoli allo sviluppo dei paesi più poveri, il fine ultimo è quello di garantire ai lavoratori provenienti dagli Stati ACP lo stesso trattamento riservato ai cittadini comunitari all’interno dell’Unione Europea.
Non è questa la sede per addentrarci in approfondimenti sul significato politico-economico della Convenzione, tuttavia non si può fare a meno di osservare che, mai come questa volta, il mondo dello sport rischia di essere rivoluzionato da un accordo di questo genere.
Sul punto, c’è già chi ha paragonato la Convenzione di Cotonou alla sentenza Bosman, vera e propria pietra miliare del diritto comunitario in tema di sport.
Era il 1995, e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee emise una storica decisione che, da quel momento in poi, consentì ai calciatori professionisti aventi cittadinanza dell’UE di trasferirsi gratuitamente ad un altro club europeo una volta scaduto il vincolo con la società di appartenenza. La sentenza, che prese il nome dal calciatore che portò il caso di fronte ai giudici di Lussemburgo, ha avuto un fondamento giuridico ben preciso: si osservò, in particolare, che il sistema allora vigente costituiva una restrizione alla libera circolazione dei lavoratori nei paesi dell’UE, che l’articolo 39 del Trattato di Roma espressamente vietava.

Quasi fosse un’integrazione ai trattati istitutivi dell’Unione Europea, l’articolo 13.3. della Convenzione di Cotonou vieta espressamente la discriminazione di nazionalità nelle condizioni di (accesso al) lavoro. Di conseguenza, è illegittimo qualunque limite all’ingaggio di giocatori provenienti dai paesi ACP legalmente residenti nello Stato UE di riferimento.
L’applicazione tout cour della Convenzione di Cotonou, e la conseguente illegittimità delle pratiche ad essa contrarie, dovrebbe essere già un dato di fatto, stante la preminenza del diritto internazionale sugli ordinamenti particolari, che in questo caso, fra l’altro, rafforza e dà maggiore slancio ad una norma antidiscriminatoria presente nel trattato costitutivo dell’Unione Europea.
In questo caso, tuttavia, è necessario un passaggio ulteriore: il recepimento della Convenzione da parte di quelle federazioni che, come la FIGC, non hanno ancora provveduto ad apportare alcuna modifica dei propri regolamenti (a differenza della maggior parte delle altre federazioni europee, dove gli accordi sono stati recepiti da diverso tempo, e come la FIP, la Federazione Italiana Basket, la prima in Italia a dare applicazione alle prescrizioni di Cotonou).

Ponendo l’intera questione sotto la duplice lente di ingrandimento del diritto sportivo federale e del diritto comune nazionale, è opportuno precisare che, stante le resistenze della Federazione Italiana Giuoco Calcio, il giocatore originario di uno dei paesi dell’ACP – avente i requisiti per lavorare in Italia, ma non accolto dalla federazione nazionale – deve presentare un’istanza al massimo organo calcistico continentale, la UEFA, che ha il potere di imporre alla federazione italiana di tesserare il giocatore: una sorta di tesseramento coatto.
Attenzione, però. E’ fondamentale tener presente che la Convenzione di Cotonou non si applica ai calciatori che si trovino irregolarmente nel nostro paese. La norma internazionale riguarda esclusivamente lo svolgimento dell’attività lavorativa, lasciando allo Stato ricevente assoluta discrezionalità in merito ai requisiti per l’ingresso nel suo territorio.
Inoltre, il divieto di discriminazione si riferisce al solo paese di prima residenza del calciatore, il quale, qualora decida di recarsi dallo Stato comunitario di residenza ad un altro Stato facente parte dell’Unione Europea, dovrebbe sempre e comunque rispettare le norme sull’immigrazione dello Stato nel quale voglia trasferire la propria residenza.

Tale ultima precisazione è molto importante al fine di circoscrivere la portata della Convenzione, che non si traduce in un’indiscriminata apertura delle frontiere da certi paesi extra-UE, ma costituisce un’opportunità in più per tutti gli atleti extracomunitari di una determinata provenienza che hanno già i requisiti per risiedere legalmente in Italia, con la conseguente esclusione di chi non possiede i detti requisiti (previsti dalla legge Bossi-Fini), compresi i calciatori che già risiedono (sia pur legalmente secondo i singoli ordinamenti) in uno qualsiasi degli altri Stati dell’Unione Europea.

Avv. Carlo Rombolà

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