Caso Parma e Directors’ test: una buona abitudine da importare

Come vi sentireste se la vostra squadra del cuore venisse acquistata da un imprenditore inaffidabile, che con la sua scarsa abilità – per non dire di peggio – la conducesse al fallimento?
Sarebbe uno smacco difficile da digerire, perché qui non si tratta di un rigore sbagliato o di una prestazione sottotono, ma di debiti accumulati e non pagati, irregolarità di bilancio e conseguenti sanzioni, come la retrocessione d’ufficio o, nei casi più gravi, la cancellazione dal panorama sportivo professionistico.

Tutte queste disavventure sono dietro l’angolo anche per un imprenditore accorto e in buona fede, figuriamoci per quelle figure che non possiedono queste caratteristiche essenziali.
Con riferimento alle ultime vicende calcistiche nostrane, la mente va al caso Parma, una società dal glorioso recente passato, che in questi giorni si è riscoperta sedotta e abbandonata da una cordata di imprenditori che l’avevano rilevata dal precedente proprietario soltanto due mesi fa.
I risultati della gestione attuale sono disastrosi: oltre ad occupare l’ultimo posto della classifica di Serie A, la società ha circa 50 milioni di debiti, e da diverso tempo non versa gli stipendi né ai giocatori né ai dipendenti, ormai pronti a mettere in mora il club.

Quale potrebbe essere la soluzione ad un simile problema? Per quanto riguarda la compagine emiliana, viene da dire, è troppo tardi, la società è già stato acquistata e, purtroppo, mal gestita. Ma se avessimo seguito l’esempio della Premier League, il disastro – forse – si sarebbe potuto evitare.
In Inghilterra, infatti, gli imprenditori che desiderano avvicinarsi al mondo del football devono superare una sorta di prova di affidabilità, chiamata Directors’ Test, secondo la quale non potranno acquistare un club se: a) hanno potere o influenza su un’altra società di calcio; b) detengono una partecipazione significativa in un altro club; c) la legge vieta loro di acquistare un club; d) hanno dichiarato fallimento; d) sono stati presidenti o proprietari di un altro club, mentre hanno subito due o più eventi non connessi di insolvenza; e) sono stati amministratori di due o più squadre che, mentre ne erano proprietari, hanno subito un evento di insolvenza.

Le precauzioni non sono finite qui. Infatti, la Premier League chiede ai suoi membri di rendere pubblici i nomi di tutti coloro che possiedono il 10 % di una società di calcio, per sacrosante esigenze di trasparenza. E’ il caso di precisare, tuttavia, che la regola non si applica ai club delle serie inferiori, per opposte – e, secondo noi, inopportune – ragioni di riservatezza.
D’altro canto, se è vero che tutte le leggi del mondo potrebbero non bastare ad arginare i disegni criminosi dei furfanti del pallone (lo stesso Directors’ Test non è esente da critiche dagli stessi inglesi, che lo ritengono troppo teorico e poco adatto alle peculiarità dei casi concreti), da ora in avanti sarà opportuno prendere in debita considerazione l’apporto di misure preventive in materia di compravendita di società di calcio.

In questo senso, qualcosa parrebbe muoversi, poiché, a detta del presidente della Lega Serie A, Maurizio Beretta, il tema “è all’ordine del giorno, ed è probabile che a livello federale si pensi ad una modifica sul modello Premier League”.
Per usare un linguaggio giuridico, il bene da tutelare qui non è solo la regolarità delle transazioni commerciali, ma anche la passione dei tifosi, sempre più spesso incolpevoli comparse di una storia che non ha quasi mai un lieto fine.

Avv. Carlo Rombolà

1 commento

Luca Dalla Costa ha detto...

Tutto vero e altamente necessario. Il problema però nel caso italiano sarebbe quello della credibilità dei controllori. Metà dei presidenti di Serie A probabilmente non passerebbero essi stessi il controllo per una o più delle ragioni summenzionate.