Abolizione delle third-party ownership: chi ci guadagna?

Nel mondo del calcio, come abbiamo già avuto occasione di osservare, dentro ma soprattutto fuori dal campo, ci sono delle vicende che gran parte dei tifosi ignorano o che, più semplicemente, non riscuotono il loro interesse.
E come potrebbe essere altrimenti, visto che si tratta di complesse operazioni economico-finanziarie, decisamente meno spettacolari di un dribbling o una rovesciata, ma tuttavia così importanti per i bilanci di alcune società?

Stiamo parlando dei TPO, Third Part Ownership, fondi di investimento che servono a sostenere i costi dei cartellini dei calciatori, a fronte di un corrispettivo economico in entrata e in uscita.
In altre parole, quel che succede è che un soggetto privato, titolare del fondo, effettua un investimento in denaro sulla crescita professionale di un atleta, con evidente risparmio per le società di calcio, soprattutto per quelle meno solide da un punto di vista economico.

E’ questo, però, l’unico vantaggio per i club, dal momento che, nel caso in cui il giocatore veda incrementare il suo valore e diventi oggetto di trattative e cessioni, al suddetto fondo dovrà essere riconosciuta una sostanziosa fee, spesso pari a più della metà del valore dell’operazione commerciale.

Di esempi potrebbero essercene tanti, da Sergio “Kun” Aguero a Radamel Falcao (con l’Atletico Madrid protagonista, in entrambi i casi, della vicenda), passando per tutta una serie di giocatori meno famosi (per restare in ambito di stretta attualità, si pensi a Felipe Anderson, centrocampista della Lazio, autore di una doppietta nell’ultimo turno di campionato) ma comunque oggetto di desiderio dei fondi d’investimento privati, o perlomeno di quelli che hanno, per così dire, fiutato l’affare.

Si potrebbe obiettare che, in regime di libero mercato e in assenza di richiami ufficiali della FIFA, i club debbano essere padroni del proprio destino, e possano quindi stipulare ogni sorta di accordo commerciale che ritengano per loro vantaggioso, soprattutto al fine di scongiurare un ridimensionamento della propria competitività sportiva a causa di problemi economici.
 Dopotutto, si è sempre fatto un gran parlare della necessità di permettere anche alle società i cui bilanci sono meno floridi di poter competer in ambito internazionale (lo stesso Atletico Madrid, la stagione scorsa, è arrivato ad una manciata di secondi dalla conquista della Champions League, persa in extremis contro i rivali del Real).

La FIFA, tuttavia, non la pensa così, e nel corso dell’ultima riunione del Comitato Esecutivo ha preso la decisione di abolire i TPO, con effetto dal 1° maggio 2015, con la possibilità di stringere accordi della durata di un anno dal 1° gennaio al 30 aprile 2015, oltre, naturalmente, alla validità di quelli già esistenti.
Le ragioni di questa presa di posizione così netta e risoluta vanno probabilmente ricercate nell’accusa di mancata eticità commerciale in capo al sistema delle terze parti, che avrebbe il discutibile effetto di “drogare” il mercato, immettendo denaro a fini meramente speculativi nelle casse delle società, che andrebbero poi a ritrovarsi nella situazione di non poter godere dei frutti della vendita del calciatore, date le importanti percentuali da corrispondere al fondo di investimento, comproprietario del cartellino.
Come spesso accade la verità sta nel mezzo, e se da un punto di vista squisitamente etico si può essere d’accordo con l’idea per cui non sia corretto che un soggetto terzo alteri i delicati equilibri economici del mondo dello sport, è pur vero che, senza scappatoie (legali, s’intende) come questa, la tavola continuerà ad essere imbandita solo ed esclusivamente per i soliti noti.

Avv. Carlo Rombolà

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