Il fenomeno dell’Ambush Marketing durante le manifestazioni sportive

Fra tutto ciò che tradizionalmente precede i grandi eventi sportivi, come la pubblicità in tv e alla radio, i preparativi, le emozioni degli appassionati, da qualche tempo c’è qualcosa che forse conosciamo ancora poco, ma di cui sentiremo parlare sempre più insistentemente nei prossimi mesi: l’ambush marketing.
Il fenomeno, pressoché sconosciuto a non addetti ai lavori, consiste in una sorta di agganciamento parassitario ad una determinata manifestazione (in questo caso sportiva, ma il concetto è applicabile anche in altri ambiti) di particolare notorietà e visibilità, da parte di un soggetto commerciale che non è legato da alcun rapporto con l’organizzatore dell’evento, e che, pertanto, non ha sostenuto alcun esborso per la sponsorizzazione dello stesso.
Il termine, che un legislatore ardito tradurrebbe in “pubblicità a scrocco”, si riferisce alla condotta di un soggetto, che chiameremo ambusher, che, approfittando di una finale di Champions League, o, meglio ancora, di manifestazioni come le Olimpiadi o i Mondiali di Calcio, insinui il proprio marchio all’interno dello spettacolo sportivo: uno striscione fatto srotolare sugli spalti, un gadget (anche tecnico) indossato da un atleta, un particolare abbigliamento di alcuni tifosi, etc.
Si tratta di una pratica particolarmente subdola, proprio perché difficile da individuare.
Non si tratta del solito venditore ambulante che smercia magliette contraffatte, bensì di imprese proprietarie di marchi anche rinomati, che, non essendo riuscite ad ottenere (o magari senza neanche averci provato) un contratto di sponsorizzazione con l’organizzatore della manifestazione, si sono ingegnate – trovando, peraltro, un’ottima soluzione – per dare, lo stesso, risalto al proprio marchio.
Da una prospettiva di marketing, la questione è ancora più complessa, se si pensa che, così facendo, l’ambusher ingenera nel pubblico la convinzione di essere uno degli sponsor della manifestazione, ed è per questo che autorevole dottrina ha definito il fenomeno alla stregua di “sponsorizzazione putativa” o “commercializzazione parassita”.

Alcuni esempi potranno essere utili per comprendere ancora meglio il problema, anche perché, come si vedrà, spesso la condotta illegittima è stata perpetrata da chi, in linea teorica, gode già di rinomanza planetaria.
Nel 1996, anno delle Olimpiadi di Atlanta, la Nike ha allestito un imponente “store” nelle vicinanze degli impianti sportivi, lasciando intendere che fosse uno degli sponsor della manifestazione. Così non era, e l’azienda di Beaverton si trovò a beneficiare di un enorme pubblicità, risparmiando i 50 milioni di dollari necessari per diventare sponsor dell’evento sportivo. Da sottolineare, inoltre, come in virtù di quella operazione di marketing, in base alle ricerche di mercato fatte in quel periodo, la società avesse ingenerato nel pubblico la convinzione di essere stato lo sponsor ufficiale della manifestazione!

Otto anni più tardi, nel 2004, in occasione degli Europei di Calcio in Portogallo, una casa produttrice di birra ha omaggiato i tifosi accorrenti allo stadio di un cappello a punta del tipico colore della propria lattina, facendo in modo tale che questa forma originale di sponsorizzazione avesse accesso allo stadio, a dispetto dello sponsor ufficiale della manifestazione, anch’esso un produttore di birra. Oltre che per la singolarità della fattispecie, questo episodio rileva anche da un punto di vista normativo, poiché in quell’occasione la UEFA richiese (venendo accontentata) al Governo portoghese di emanare una legislazione ad hoc, che permettesse di arginare il fenomeno con il sequestro dei materiali abusivi.

Anche nell’ultimo Mondiale di calcio in Sudafrica nel 2010 si è assistito ad un tipo di ambush marketing particolarmente ingegnoso: sono state fatte entrare allo stadio diverse ragazze in appariscenti costumi che richiamavano il marchio di una birra olandese, in aperto contrasto con il legittimo sponsor dell’evento, anch’esso produttore di bevanda al luppolo.

Quest’ultimo episodio ci permette di rilevare come il fenomeno sia in continua evoluzione, e quindi difficilmente arginabile, da parte delle Autorità competenti, se non per il tramite di normative ad hoc, che autorizzino provvedimenti inibitori e riduzioni in pristino forzate.
In questo senso, i precedenti incoraggianti non mancano, ed in vista delle prossime Olimpiadi invernali di Sochi, val la pena richiamare la legislazione speciale adottata dal Governo italiano per le Olimpiadi di Torino 2006* che, oltre a rafforzare la tutela dei tipici segni distintivi dei Giuochi Olimpici (i cinque cerchi e il termine “olimpiadi”), ha affrontato il problema dell’ambush marketing tipizzandone talune ipotesi** e dichiarandone l’illiceità***.

In mancanza di una siffatta normativa, che presenta comunque i caratteri della transitorietà, efficaci strumenti di tutela degli sponsor ufficiali potrebbero ricavarsi, quantomeno in Italia, dalle disposizioni sulla tutela del marchio contenuti nel Codice della Proprietà Industriale****, dal dettato del Codice Civile in materia di concorrenza sleale e dagli articoli del Codice del Consumo in materia di pubblicità ingannevole .
E’ pur vero, d’altronde, che, accanto alle ipotesi di legislazione nazionale, sarebbe opportuno dare spazio a forme di tutela contrattuale, che obblighino gli organizzatori delle varie manifestazioni a vigilare – quando non anche a dare specifiche garanzie – sul rispetto degli investimenti degli sponsor, assumendosi precise responsabilità in ordine alla prevenzione ed alla repressione dei fenomeni di ambush marketing.
Il tutto, senza dimenticare che, spesso, involontari – o, peggio, acquiescenti – promotori di questa sorta di sponsorizzazione abusiva sono proprio le federazioni nazionali e le squadre di club, restie a scontentare i propri sponsor – spesso concorrenti di quelli ufficiali della manifestazione – con la conseguenza di contribuire al diffondersi del fenomeno. 

Avv. Carlo Rombolà

* Legge 17 agosto 2005, n. 167, “Misure per la tutela del simbolo olimpico in relazione alla svolgimento dei Giochi invernali <>”.

** Art. 2 comma II: “è vietato pubblicizzare, detenere per farne commercio, porre in vendita e mettere altrimenti in circolazione prodotti o servizi, utilizzando segni distintivi di qualsiasi genere, atti ad indurre in inganno il consumatore sull’esistenza di una licenza, autorizzazione o altra forma di associazione tra il prodotto e il C.I.O. o i Giuochi Olimpici”.

*** Art. 2 comma III: “è vietato intraprendere attività di commercializzazione parassitaria (<
>), intese quali attività parallele a quelle esercitate da enti economici o non economici, autorizzate dai soggetti organizzatori dell’evento sportivo, al fine di ricavarne un profitto economico”.

**** Decr. Lgsl. n. 30 del 10 febbraio 2005, così come coordinato ed aggiornato dal D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 131, nonché al D.L. 29 dicembre 2011, n. 216, convertito con modificazioni in L. 24 febbraio 2012, n. 14.

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