I whereabouts nella lotta al doping: profili di illegittimità

Evento che ha recentemente scosso il mondo dello sport in Italia è stato la richiesta di condanna da parte della Procura Antidoping Italiana avvenuta nel dicembre 2015 nei confronti di 26 atleti (Roberto Bertolini, Migidio Bourifa, Filippo Campioli, Simone Collio, Roberto Donati, Fabrizio Donato, Giovanni Faloci, Matteo Galvan, Giuseppe Gibilisco, Daniele Greco, Andrew Howe, Anna Incerti, Andrea Lalli, Stefano La Rosa, Claudio Licciardello, Daniele Meucci, Christian Obrist, Ruggero Pertile, Jacques Riparelli, Silvia Salis, Fabrizio Schembri, Daniele Secci, Kaddour Slimani, Gianluca Tamberi, Marco Francesco Vistalli, Silvia Weissteiner) della FIDAL (Federazione Italiana Atletica Leggera), per “eluso controllo” in relazione al biennio 2011/2012: in particolare, si contestava la violazione dell'articolo 2.3 del C.S.A. (Codice sportivo Antidoping) con richiesta di irrogazione della sanzione di anni 2 di squalifica e di non doversi procedere per l'addebito contestato di cui all'articolo 2.4 (mancata reperibilità al controllo) del C.S.A stesso.

Pochi mesi fa, gli atleti deferiti sono stati definitivamente assolti in tre tranche separate: tuttavia, salvo il buon esito della vicenda, soprattutto in considerazione delle accuse mosse, agli occhi dei più poco fondate, è ancora una volta stata sollevata la questione riguardante l’opportunità di un sistema di controllo del doping che appare talvolta eccessivamente severo se non addirittura lesivo dei diritti dell’atleta.

Come sarà noto alla maggior parte dei lettori, e senza voler in questa sede ripercorrere le varie tappe della lotta al doping all’interno del mondo sportivo, il 10 novembre 1999 veniva istituita la WADA (World anti-doping agency), un’agenzia il cui compito è principalmente stato, da allora, quello di combattere e prevenire l’utilizzo delle sostanze dopanti durante le competizioni sportive: il programma mondiale antidoping della WADA (ben delineato nel Codice Mondiale Antidoping, ultima versione del 2015) è stato poi recepito anche in Italia dal CONI*, e la sua maggiore peculiarità è rappresentata proprio dal c.d. “whereabouts system”.

I whereabouts sono definiti tanto dalla WADA (“Whereabouts are information provided by a limited number of top elite athletes about their location to the International Sport Federation (IF) or National Anti-Doping Organization (NADO) that included them in their respective registered testing pool as part of these top elite athletes’ anti-doping responsibilities”) quanto dalle nostre Norme Sportive Antidoping (Documento tecnico attuativo del Codice Mondiale Antidoping e dei relativi standard internazionali della WADA (International Standard for Testing and Investigations, ISTI)) e, prendendo spunto proprio da queste, si parla di “informazioni sui luoghi di reperibilità e permanenza fornite trimestralmente dall’Atleta inserito in un gruppo registrato ai fini dei controlli. La mancata o inesatta comunicazione delle informazioni richieste può costituire violazione delle NSA”. Si tratta insomma di informazioni che l’atleta (inserito nel RPT nazionale**, giacché tale dovere di rendersi reperibile non riguarda appunto qualunque atleta) ha l’obbligo di fornire al fine di essere regolarmente sottoposto ai controlli del caso.

Così, in concreto, l’atleta dovrà trasmettere trimestralmente al CONI-NADO (Comitato Controllo Antidoping) oltre a numerose informazioni personali (tra cui nome, cognome, nazionalità, sesso, federazione, residenza abituale, recapito telefonico, e-mail, il luogo ove svolge regolare attività per quattro ore al giorno ed eventualmente un secondo luogo, un modulo whereabouts “di squadra”), il proprio modulo Whereabouts (completo di indicazione del luogo e dell’ora scelti per il controllo durante il trimestre) almeno 10 giorni prima dell’inizio del trimestre di riferimento; eventuali aggiornamenti o modificazioni relativi alla reperibilità di un dato giorno dovranno essere comunicati entro un’ora prima dell’inizio dei 60 minuti canonici all’interno dei quali è previsto l’espletamento del controllo: in caso di omissione nel fornire le informazioni richieste si parlerà di “mancata comunicazione”, mentre in caso di indisponibilità nel giorno e nell’ora indicata piuttosto che mancato aggiornamento delle informazioni entro i 60 minuti precedenti al controllo stesso, si parlerà di “controllo mancato”. Si tenga inoltre presente che, in caso di triplice inadempienza (rispetto ad entrambe le violazioni, anche sommate tra loro) nell’arco di 12 mesi, l’atleta incorrerà nel c.d. “Whereabouts Failure”, che comporterà, a sua volta, una squalifica di ben due anni (come se l’atleta avesse effettivamente assunto sostanze dopanti!), eventualmente riducibile a un solo anno a particolari condizioni circostanziali e di colpevolezza: insomma, tale severa disciplina non solo richiede un certo (e per certi versi, eccessivo) grado di diligenza in capo all’atleta, ma tende soprattutto a equiparare, ai fini sanzionatori, condotte propriamente “di doping” a semplici comportamenti negligenti, rendendo peraltro piuttosto difficile all’atleta stesso dimostrare la propria non colpevolezza.
Stante quanto sopra spiegato, l’invasività di tale disciplina desta senz’altro qualche perplessità rispetto alla nostra Costituzione (artt. 2,3,10,13 e 14 della Carta Costituzionale, tanto rispetto al diritto del cittadino alla libertà e al domicilio, quanto all’obbligo di conformarsi alla normativa internazionale): appare infatti evidente che la normativa antidoping violi, sotto molteplici aspetti, i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo rispetto alla sua vita privata e ai dati personali forniti a terzi (non dimentichiamoci infatti che, al di là della specialità dell’attività svolta, l’atleta deve essere tutelato al pari di qualunque altro cittadino).

Quanto al diritto comunitario, invece, (appurato ormai che l’attività sportiva sia anch’essa di competenza comunitaria (Sentenza Walrave, Corte di Giustizia 12 dicembre 1974, causa 36/72; Sentenza Donà, Corte di Giustizia 14 luglio 1976, causa 13/76)), come autorevole dottrina***  ha fatto notare ci si potrebbe trovare di fronte a una possibile violazione dell’art. 2 della Direttiva Privacy n. 95/46/CE (dal momento che quest’ultima prevede il diritto di fornire propri dati in piena libertà, il che contrasta con la vera e propria imposizione operata dal regolamento della WADA), nonché degli artt. 39, 81 e 82 TCE (dal momento che, rispetto all’art. 39, è stato sottolineato che l’atleta, al fine di farsi trovare nel luogo indicato nei whereabouts, potrebbe evitare allontanamenti da tale luogo (a fini lavorativi o di allenamento, per esempio) per non dover ulteriormente modificare il proprio modulo whereabouts e non incorrere in sanzioni in caso di errore, di fatto vedendosi limitata la propria libertà di circolazione; quanto invece agli artt. 81 e 82, è stato fatto notare che, una volta considerate le organizzazioni sportive vere e proprie imprese e ritenuta la normativa antitrust applicabile anche in materia sportiva (vedi caso Meca-Medina), si potrebbero ben considerare le sanzioni comminate dalla WADA, in relazione alla semplice negligenza degli atleti nella compilazione dei whereabouts, fin troppo gravose rispetto allo scopo che intendono perseguire). In questo senso, contrasti emergono anche in relazione alla CEDU (Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), in particolare rispetto agli artt. 5 (con riguardo alla tutela della propria vita familiare e del proprio domicilio) e 17 (nel momento in cui quest’ultimo afferma che non vi è alcun potere, da parte di uno Stato, o di qualsivoglia organizzazione e individuo, di prevedere limitazioni ai diritti riconosciuti dalla Convenzione in misura maggiore di quanto già previsto dalla CEDU stessa); e rispetto all’art. 7 (anche qui, la tutela della vita privata e del domicilio dell’individuo) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Insomma, ciò che è stato sopra delineato conferma quanto più volte lamentato da diversi operatori del settore sportivo: ovviamente, non si vuole qui sminuire l’importanza della lotta al doping (perché sempre fondamentale e attuale, anche alla luce dei recenti avvenimenti riguardanti lo sport in Russia****  o ciò che è accaduto poche settimane fa nel ciclismo italiano*****, per esempio) ma, allo stesso tempo, non si può non considerare o comunque tendere a trascurare le problematiche che il sistema dei whereabouts ha portato******  e porta tuttora nelle vite degli atleti.

In conclusione, proprio in quest’ottica appare opportuna una rivisitazione del whereabouts system, non soltanto in modo tale da renderlo maggiormente rispettoso dei diritti dell’atleta, ma anche al fine di assicurare all’atleta stesso di essere in minor misura vincolato e, in caso di violazioni del regolamento antidoping e quando le circostanze lo permettano, di potersi effettivamente “scagionare”.


Alessandro Ferrari
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Attraverso il Documento Tecnico Attuativo approvato dalla Giunta Nazionale del CONI stesso con deliberazione del 21 agosto 2007 n. 292.

** Registered Testing Pool: dovrebbero farne parte gli atleti appartenenti al Club Olimpico, quelli inseriti di rettamente da ogni singola federazione, i convocati per le rappresentative nazionali, gli atleti dei campionati nazionali tesserati per squadre di massima serie, ed è anche fatta la possibilità che ne vengano inseriti altri direttamente dal Comitato Controllo Antidoping.

*** Francesca D’Urzo in “La dubbia legittimità del whereabouts system elaborato dal codice Wada”, RDES, 2012.

**** In un recentissimo rapporto della WADA, si legge che sarebbero più di 1000 gli atleti russi coinvolti nel doping, prospettando, di fatto, un vero e proprio “doping di massa”.

***** Proprio alla vigilia del Giro d’Italia, Pirazzi e Ruffoni (del team Bardiani) sono stati allontanati dalla propria squadra per aver fallito dei controlli fuori competizione del 25 e del 26 aprile; pochi giorni fa, a seguito della conferma della positività delle controanalisi, sono stati licenziati.

****** Il caso più eclatante, probabilmente, quello di Kevin Van Impe, obbligato ai tempi ad effettuare un test antidoping presso la propria abitazione, nonostante stesse per prender parte alla cerimonia funebre del figlio.

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