Il sistema sportivo europeo: un modello in crisi di identità

“Lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata”.
In tale assunto di Pierre de Coubertin è racchiusa l'essenza della cultura sportiva europea.
Nel vecchio continente lo svolgimento dell'attività sportiva nasce e si diffonde assumendo una funzione sociale, educativa e culturale e dando vita a quello che oggi è comunemente definito “modello europeo di sport”.
Quest'ultimo, come probabilmente noto, è un sistema misto in cui coesistono iniziative statali (di diversa intensità a seconda della singola Nazione) ed iniziative private (Federazioni, Leghe, Enti di promozione sportiva). La struttura organizzativa è di natura piramidale e risulta caratterizzata da diversi livelli di interdipendenza sia nazionali che internazionali anche con riferimento alle competizioni sportive le quali si svolgono secondo uno schema di promozioni/retrocessioni.

Il cuore pulsante di tale sistema è rappresentato dalle singole Federazioni Nazionali le quali hanno il compito di promuovere e regolamentare (anche delegando a terzi ndr: leghe) l'attività sportiva di riferimento ad ogni livello, sia esso amatoriale, agonistico e “professionistico” (se previsto) nel rispetto delle direttive nazionali e, da tempi relativamente recenti, anche comunitarie.

In occasione della dichiarazione di Nizza del 2000 il Consiglio Europeo, consacrando il ruolo da protagoniste delle singole Federazioni, ha riconosciuto formalmente per la prima volta la “specificità” su cui è stato costruito il modello di sport all'interno della società europea ed ha affermato che: “la Comunità deve tener conto, anche se non dispone di competenze dirette in questo settore, delle funzioni sociali, educative e culturali dello sport, che ne costituiscono la specificità, al fine di rispettare e di promuovere l'etica e la solidarietà necessarie per preservarne il ruolo sociale”.
Nonostante le “nobili” origini e la consacrazione della sua specificità, il modello sportivo europeo sta vivendo una profonda crisi di identità.

La “mercificazione” dell'attività sportiva (culminata con l'avvento della televisione e la vendita dei diritti televisivi delle gare) ha comportato infatti lo snaturamento dello sport così come originariamente inteso dal barone francese fondatore dei moderni Giochi Olimpici ed alla scissione dello stesso in due grandi branche; da un lato lo sport amatoriale e agonistico non retribuito e dall'altro lo sport “professionistico”
Se l'originario modello europeo di sport si adatta perfettamente alla prima delle due branche, ciò non si può dire tuttavia per la seconda.
Come evidenziato dalla Commissione Europea in occasione della stesura del Libro Bianco dello Sport (primo vero atto di intervento in materia sportiva a livello comunitario) : “Il rapido sviluppo conosciuto recentemente dallo sport europeo mostra che questo sistema potrebbe essere oggetto di trasformazioni radicali, e per questo è tanto importante condurre una riflessione sul modo di organizzazione di questo settore nei prossimi anni. Senza tale riflessione il sistema sportivo europeo rischia di scoppiare sotto la pressione di gruppo economici che desiderano ispirarsi a formule per lo sport agonistico già sperimentate in altre parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti. (Bruxelles 2007).

Ed è proprio quello che si sta verificando da qualche anno a questa parte in seno alle Leghe sportive professionistiche europee e nazionali.
Nel primo caso ci si riferisce all'introduzione nel 2009 ad opera della UEFA del Fair Play finanziario avente lo scopo primario di dare ordine e razionalità al sistema finanziario delle società calcistiche sempre più avvezzo a speculazioni spropositate e dannose per lo svolgimento equilibrato dei campionati.
Per quel che riguarda l'Italia, l'esempio più eclatante si rinviene nell'introduzione per la stagione 2013 – 2014 dei campionati di calcio di serie B del sistema del salary cap, (tradotto: tetto agli ingaggi) sulla falsa riga di quanto già sperimentato in altre parti del mondo. Si deve evidenziare infatti che il salary cap non è attuato solo dalle Leghe sportive statunitensi; una sua positiva applicazione si rinviene anche in Inghilterra nei maggiori campionati di rugby, nell'Aviva Premiership di rugby a 15 e della Super League di rugby a 13 ed in Australia, nell' Australian Footballa League e nella National Rugby League e nell'A- League Soccer.

Il principio posto alla base di tale sistema è quello di regolamentare il più possibile l'afflusso di denaro nelle leghe professionistiche sportive determinando per ogni stagione il quantum che le società sportive o club possono spendere per pagare gli stipendi dei propri giocatori.
L'introduzione in Italia di tale meccanismo è stato oggetto di forte dibattito non tanto per i principi (ampiamente condivisibili) in esso contenuti ma per la sua isolata ed eccezionale applicazione.
Può davvero aiutare l'applicazione del tetto agli ingaggi solo nel campionato di serie B quando è a tutti noto (anche ai profani della materia) che le maggiori speculazioni riguardano invece le operazioni di mercato svolte di concerto tra dirigenti ed agenti sportivi nel campionato della massima serie?
Lasciando a chi legge la libertà di dare a detta domanda la risposta che più conviene (!), con riferimento precipuo al tema del presente scritto si evidenzia che la spinta verso gli elementi tipici del modello sportivo statunitense si rinviene anche con riferimento ad altre discipline sportive.
Ci si riferisce in particolare alla decisione assunta dalla Lega Pallavolo Maschile Serie A di bloccare le retrocessioni dal campionato di serie A1 nelle ultime stagioni sportive.
Anche tale decisione è stata oggetto di dibattito e di critiche.

La consapevolezza della non retrocessione ha portato alcuni club alla decisione di costruire la prima squadra risparmiando sull'acquisto di top player (cedendoli o prestandoli ai campionati esteri) prelevando giocatori dai settori giovanili. Tale condotta se da un lato ha dato respiro alle casse dei club in difficoltà dall'altro ha ridotto la conquista dello scudetto ad una lotta a due/tre squadre.
Tale soluzione non ha quindi risolto i problemi di fondo caratterizzanti il sistema pallavolistico italiano di serie, tanto che sono sempre più insistenti le voci circa una riforma integrale dei campionati mediante la costituzione di una SuperLega (maschile e femminile).
Sarà la soluzione giusta? Forse si; ovviamente non si potrà prescindere dall'introduzione di opportuni accorgimenti e nuove ferree regole organizzative.
Ispirarsi ad un modello sportivo professionistico differente non è sufficiente.
Per dare una identità concreta e stabile allo sport professionistico europeo (alias industria dello sport!) occorre cambiare mentalità ed ammettere definitivamente che lo stesso ben può rappresentare una risorsa economica per il paese e strutturarlo di conseguenza.

Dott.ssa Federica Ongaro
Consulente legale sportivo e agente sportivo Lega Pallavolo Maschile

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