La gestione dell'immagine dei campioni dello sport. Intervista a Enrico Gelfi, Project Manager di MP Management

Per conoscere e capire meglio le stategie di comunicazione relative alla gestione dell'immagine dei campioni dello sport, SBM ha intervistato Enrico Gelfi, Project Manager di MP Management.

Nata nel 2008 a Milano, MP Management è oggi un punto di riferimento nella gestione di Models e Celebrities e, tra queste, molti sportivi.

Gli atleti legati a Talent, dipartimento di MP Management, sono campioni affermati e volti ambiti dalle aziende che, nell'anno delle Olimpiadi, puntano a promuovere il proprio brand affidandosi alle stelle dello sport.


Talent, divisione di MP Management, è una società nata negli ultimi anni. Quali sono le principali attività di cui vi occupate?

Talent è il solo dipartimento dedicato al celebrity management del network di MP Management. Aperta nel 2014, la divisione si occupa di rappresentare personaggi appartenenti al mondo dello sport, del cinema, dello spettacolo, del web e, quale ultima aggiunta, della cucina.
Il nostro modello di business mira a creare valore aggiunto nei confronti dei clienti che intendono sviluppare i propri percorsi di comunicazione sfruttando la notorietà delle celebrity. In tal senso, il dipartimento può contare su una molteplicità di servizi afferenti ad altrettanti uffici: progettualità, digital strategy, eventi, comunicazione interna e ufficio stampa.
L’obiettivo è quello di posizionarci quale nuovo modello di agenzia consulenziale dove i servizi del celebrity management tradizionale si fondono con le quelli della comunicazione cross-mediale.

Tra le vostre celebrities vi sono molti personaggi del mondo dello sport, quali differenze ci sono nella gestione dell’immagine di un campione sportivo rispetto a quella di una modella o un’attrice?

Apparentemente la distanza è notevole, all’atto pratico, tuttavia, gli strumenti e la parte di accounting gestionale sono pressoché gli stessi. Se proprio volessimo trovare una distinzione, questa è da ricercare nella capacità di “uscire” dal proprio ambito di riferimento mantenendo un elevato grado di credibilità: mentre questo è garantito per gli sportivi, non è così scontato per le star del cinema e della tv.

Ad agosto si disputeranno le Olimpiadi a Rio de Janeiro e sono tante le aziende che investono in endorsement e campagne marketing per sfruttare al meglio la mediaticità globale dell’evento. Voi come vi preparate per cogliere le migliori opportunità che il mercato offre durante l’anno olimpico?

Il nostro portafoglio di sportivi punta molto sulle discipline olimpiche. A tal riguardo, abbiamo scelto di dividerli in due categorie: le Legend, che le Olimpiadi le hanno già vissute con risultati invidiabili (Cassina, Lucchetta, Sanzo, Savrayuk, D’Ottavio, ecc.) e gli sportivi in attività, tutti proiettati in ottica Rio 2016 (Errigo, Pizzo, Vinci, Diouf su tutti). Come ci prepariamo? Costruendo un prodotto che li contempli tutti, come “team olimpico”. In altre parole, offriamo allo stesso sponsor un pacchetto di campioni di discipline diverse.



Per ogni atleta avete una strategia di comunicazione ben definita o viene costruita in base alle caratteristiche della persona?

La strategia è sempre e comunque ispirata alle caratteristiche delle persone. Certo, esiste una linea ispiratrice legata alla bellezza, al fashion e all’eleganza, che costituiscono la vision della nostra agenzia, ma è a partire dal background valoriale di ogni singolo talent che costruiamo, caso per caso, il piano di comunicazione più adatto.

Che differenza c’è a livello contrattuale tra un testimonial e un brand ambassador?

Nel primo caso si crea una vera e propria sovrapposizione valoriale tra la celebrity e il brand di cui questo è testimonial: i pregi e i difetti dell’uno si trasferiscono all’altro e viceversa. Nel secondo, invece, la celebrity si presta solo per mettere a disposizione la sua immagine e/o le sue parole per comunicare ai media i valori del brand. La differenza, apparentemente labile, marca una grande distanza sia sul piano della cessione dei diritti di immagine, che in termini economici.


Che tipo di analisi effettuate per valutare il potenziale di un’atleta in termini di immagine?

Il dipartimento Talent si è affidato sin dai primi passi ad un’agenzia esterna per il monitoraggio e la valutazione delle proprie celebrity. Questo accorgimento si è rivelato fondamentale per conoscere il posizionamento degli stessi, i loro punti di forza e di debolezza, nonché i livelli di awareness e appeal rispetto ai quali definire la nostra strategia commerciale.

Effettuate anche analisi qualitative e quantitative sul ritorno dell’investimento effettuato in sponsorizzazioni e pubblicità? 

Una valutazione quantitativa del ROI richiede il coinvolgimento consulenziale di enti terzi (al momento non previsto). Un giudizio quantitativo è invece più facilmente misurabile, soprattutto quando sono coinvolti i new media: i tool d’analisi messi a disposizione dal web per la lettura degli insight social sono uno strumento molto importante per valutare l’impatto delle campagne di comunicazione realizzate e giustificare quindi ai clienti i propri investimenti.

Negli anni addietro l’obiettivo principale degli sponsor era massimizzare l’awareness, oggi invece si punta anche sull’engagement. Lei lavora da anni nel mondo della comunicazione, come è cambiato questo settore nell’era digitale?

Devo riconoscere che l’engagement era considerato un obiettivo sensibile del marketing già prima dell’avvento del web 2.0, soprattutto nel mondo dello sport. Grazie al linguaggio delle emozioni e della passione, i brand hanno sempre cercato di associarsi agli sportivi che ne veicolassero l’immagine e i valori. Questo, ad esempio, spiega il grande amore delle aziende per sport anche non vincenti come il rugby.
Negli anni sono cambiate le tempistiche e l’immediatezza del rapporto biunivoco brand-cliente: da engagement fisico da ricercarsi durante gli eventi, più costoso e poco performante in termini di contatto, si è passati ad uno principalmente virtuale, più immediato, economico e targettizzato. 
Con la crisi economica, abbiamo assistito a una forte contrazione dei budget per le attività di marketing e comunicazione, in particolare negli sport minori. Lei pensa che ci sia un’inversione di tendenza con una fase in crescita degli investimenti?

Sinceramente e malinconicamente, no. La speranza di tornare a intercettare i flussi economici di 7/8 anni fa si fa sempre più flebile. Con questa consapevolezza cerchiamo di diversificare le fonti di ricavo, lavorando in modo sempre più parcellizzato per soddisfare le esigenze di un mercato che, a dispetto del passato, non può più contare su pochi, grandi investimenti, ma predilige i piccoli budget mirati.
È anche per questo motivo che il nostro dipartimento nasce e si sviluppa quale struttura snella e dinamica, la cui autonomia decisionale si presta perfettamente alle necessità di immediatezza e rispondenza richieste dal mercato.

Gli sport americani, pur avendo meno fan rispetto ad esempio al calcio, riescono a generare un business maggiore; si pensi al Super Bowl, uno degli eventi sportivi più mediatici al mondo, dove uno spot di 30 secondi vale 5 milioni di dollari. Quello americano è un modello di sport business replicabile anche in Europa? 

Benché la speranza sia viva, temo di no. La differenza culturale tra i due continenti rende queste contiguità di difficile applicazione. Il loro format resta ovviamente un modello aspirazionale per noi europei, rispetto al quale alcuni settori dello sport stanno compiendo graduali progressi. Cito su tutti il disegno dell’UEFA di far evolvere l’attuale Champions League verso un Campionato europeo per soli Top Team.

Giuseppe Berardi
berardigiuseppe@gmail.com

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