Gli istituti del Salary Cap e della Luxury Tax: difficoltà di applicazione in ambito Europeo

Spesso si è parlato di quanto il sistema di business sportivo europeo fosse arretrato rispetto a quello nordamericano e di quanto fosse necessario per il primo progredire in tal senso, magari prendendo spunto proprio da una serie di istituti e regole nati nel secondo: in quest’ottica, gli addetti ai lavori hanno talvolta suggerito l’adozione, da parte dei maggiori campionati europei, del “salary cap” e della “luxury tax”, sui quali si basa ormai da anni la NBA.

Quanto al primo, si tratta di un tetto salariale che ogni singolo team dovrà fare in modo di non sforare nel momento in cui ingaggia nuovi giocatori (per la stagione in corso fissato a $94,143,000); si basa sugli introiti derivanti dai diritti tv e da altre sponsorizzazioni; varia di anno in anno, a seconda delle entrate appena menzionate, ed è lo stesso per tutte e 30 le franchigie. Viene comunemente definito un soft cap, dal momento che può essere in realtà oltrepassato: tale ultima circostanza ha reso necessaria la previsione della luxury tax (per la stagione in corso fissato a $113,287,000).



La regola che sta dietro a questa “tassa di lusso” prevede che le franchigie che oltrepassano il limite imposto dal salary cap siano obbligate a pagare alla lega una precisa sanzione calcolata sulla base dello sforamento posto in essere, che verrà ulteriormente aumentata in caso di recidività (si parla qui dei cosiddetti “repeater”, ovvero coloro che hanno dovuto pagare sanzioni per tre volte nelle ultime quattro season): a termine di tale procedura sanzionatoria, parte del denaro raccolto, di solito il 50%, viene utilizzato per fini utili agli interessi dell’associazione, mentre la restante parte viene versata nelle casse delle squadre che hanno mantenuto le proprie spese entro la soglia della luxury tax line.

Quanto al calcolo dei limiti e del prezzo dell’eventuale superamento dei rispettivi istituti, l’operazione per definirne i valori è la stessa per entrambi (Ricavi della Lega – Benefit relativi alla stagione successiva ⁄ 30 (Numero delle squadre NBA)), anche se la percentuale dei ricavi da considerare ai fini del calcolo della luxury tax è del 53.51%, contro quella del 44.74% prevista per la definizione del salary cap.



Tale sistema, ovviamente, permette di mantenere un certo livello di competitività all’interno del campionato NBA (che si prende qui ad esempio, pur essendo solo uno dei tanti campionati americani ad aver introdotto siffatta regolamentazione).

Gli ottimi risultati del sistema così delineato non sono passati inosservati agli occhi dei massimi organismi europei, soprattutto nel mondo del calcio: con lo stesso obbiettivo di equilibrare, per quanto possibile, il livello di ogni singola squadra all’interno dei diversi campionati, è stato introdotto, come ben sappiamo, il Financial Fair Play* che, ad oggi, ha ottenuto però scarsi risultati, venendo in concreto spesso eluso**, oltre a destare numerose perplessità quando rapportato al diritto europeo***.
Luxury Tax in NBA dal 2001 al 2014

Fonte: Shamsports.com

Allora ci si chiede: perché non applicare direttamente gli istituti di matrice nordamericana anche in Europa? E qui veniamo al dibattito che, da tempo, anima gli esperti del settore: se vi fosse stata la possibilità, evidentemente, chi di dovere avrebbe già recepito il modello americano; ciò probabilmente è anche stato tentato, ma le profonde differenze dei due sistemi di business a cui prima si accennava non lo hanno reso possibile.

Ad onor del vero, una parziale ricezione del salary cap nell’Europa degli ultimi anni, che ha portato peraltro a ottimi risultati dal punto di vista della competitività, c’è stata, ma non ha di certo coinvolto l’intero panorama calcistico europeo.
Alla base di tale grandissima difficoltà di emulazione sta principalmente la diversa, se non opposta, struttura dei sistemi sportivi qui analizzati: la struttura piramidale statunitense favorisce l’adozione di qualsivoglia riforma che, invece, per essere recepita in Europa, dovrebbe passare al vaglio di numerose federazioni.

In particolare, in USA, ogni decisione riguardante l’introduzione o meno di nuove regole e istituti passa attraverso un franchisor (nel calcio, la MLS) e non attraverso le singole franchisee (le squadre), mentre, al contrario, in Europa, la UEFA non gode di certo di tale potere, dovendo piuttosto coordinare le proprie scelte rifacendosi a una serie di squadre e di leghe di paesi differenti, ciascuno con la propria idea e posizione da difendere.
In quest’ottica, infatti, ostativo alla ricezione della luxury tax e del salary cap il fatto che, allo stato attuale del sistema europeo appena delineato, i top clubs dei singoli campionati si mostrano alquanto riluttanti nei confronti di regole che possano in qualche modo aumentare la competitività delle società sportive minori (diminuendo, così, le loro chance di vittoria): di fronte a tale resistenza da parte delle squadre più forti, risulta, a questo punto, difficilmente perseguibile il grande interesse dei clubs più piccoli ad ottenere strumenti per competere alla pari su grandi palcoscenici.

Insomma, a causa di questa sostanziale differenza tra il modello americano e quello europeo (non solo strutturale, ma anche di supremazia dei team più ricchi, come dimostra la gestione dei diritti TV, ad esempio), risulta complicata, se non addirittura proibitiva, la ricezione delle regole americane e degli istituti qui analizzati: va comunque sottolineato che, in un’ottica di globalizzazione (anche a livello sportivo) sempre più attuale che spinge per l’introduzione, da parte della UEFA, di misure volte a raggiungere una certa competitività proprio come in USA, un qualche risultato in tal senso rispetto a clubs più piccoli è già stato raggiunto.

Alessandro Ferrari
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*Il fair play finanziario è un sistema di controllo finanziario che si applica alle squadre che si qualificano per le competizioni UEFA e che è stato approvato nel 2010 ed è stato posto in essere dal 2011. Dal 2013, i club devono rispettare requisiti di break-even, che richiedono ai club di bilanciare le spese con i ricavi e ridurre i debiti; peraltro, dal giugno 2015, la UEFA ha aggiornato i suoi regolamenti per rivolgersi a circostanze specifiche che includono l'incoraggiamento a investimenti più sostenibili mentre si mantiene il controllo delle troppe spese, cosicché, al di là dei limiti di spesa (erano di 45 milioni di euro per le stagioni 2013/14 e 2014/15 e sono stati rivisti per 30 milioni di euro per le stagioni 2015/16, 2016/17 e 2017/18), per promuovere gli investimenti negli stadi, nelle infrastrutture per gli allenamenti e nel settore giovanile e femminile (dal 2015), tutti questi costi sono stati esclusi dal calcolo dei bilanci.

**Si pensi alla Qatar Tourism Authority (QTA) che ha rinnovato il contratto di sponsorizzazione con il Paris Saint-Germain (PSG), scaduto lo scorso 30 giugno, per l’importo annuo di 175 milioni di euro (circa il 30% dei ricavi previsti dal club per la stagione 2016-2017, 550 – 560 milioni di euro): ebbene, a differenza di quanto accaduto nel 2014 quando l’organismo di vigilanza sul Fair Play Finanziario sentenziò che il precedente contratto (200 milioni di euro a stagione) non rispettava il principio del “fair value”, la UEFA sembra abbia ormai preso un’altra posizione in merito sostenendo che “Il normale prezzo di mercato è un concetto in evoluzione. In tre anni, il PSG è diventato un marchio più forte. Così i suoi contratti di sponsorizzazione hanno raggiunto un valore più alto”, di fatto lasciando alla società francese una quasi completa libertà di autofinanziarsi. Si pensi inoltre ai c.d. settlement agreement, attraverso i quali i club che non soddisfino i requisiti economici del Financial fair play per un certo periodo, possono concludere appunto un accordo transattivo con la Uefa accettando determinate sanzioni e adottando provvedimenti operativi per rimettersi in regola. Hanno siglato accordi transattivi, tra gli altri, il Manchester City, il Psg, il Galatasaray e, in Italia, Inter e Roma.

***Art. 101, comma 1, TFUE e art. 102, TFUE. A tal proposito, Jean Luis Dupont, nel giugno 2015, ha ottenuto dal Tribunal de Première Istance de Bruxelles il deferimento alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di una parte del Fair Play Finanziario, quella che limita il deficit di bilancio dei club messi sotto osservazione dalla Uefa. Di fatto, si trattava di una sospensione della braekevenrule; va comunque detto che la Corte di Giustizia Europea, in data 16 luglio 2015, ha dichiarato “palesemente inammissibile” la sospensione della regola prospettata dal Tribunale di Bruxelles stesso.






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