Organizzazione di eventi e internazionalizzazione del brand il core business della nuova Gea World. Intervista a Carlo Oggero

Le recenti analisi e report pubblicati in merito alla situazione economica e finanziaria del calcio europeo hanno evidenziato come il divario tra le grandi società di calcio italiane e le big europee sia cresciuto notevolmente. Negli ultimi anni,  mentre in Inghilterra, Spagna e Germania si lavorava sul fronte internazionale per accrescere il valore dei brand e siglare importanti accordi commerciali, in Italia l’attenzione nelle assemblee di Lega era sempre incentrata sulla torta da dividere per quanto riguarda i diritti televisivi.
La mancanza di stadi di proprietà incide molto nei bilanci dei club, ma quello che oggi penalizza le società italiane nel confronto con l’Europa è la mancanza di appeal a livello internazionale, in particolare nei mercati emergenti dove i top club europei sono fortemente presenti.
Per approfondire meglio queste tematiche Sport Business Management ha intervistato Carlo Oggero, direttore generale di Gea World.

Quali sono le principali attività e i progetti della nuova Gea World?

Ci occupiamo prevalentemente di attività di consulenza rivolta alle società di calcio, sia nell’ambito dell’ internazionalizzazione dei marchi – oggi necessità assoluta per i club – che in quello dell’ottimizzazione dei rapporti con i tifosi. In parallelo portiamo avanti dei progetti in Medio Oriente, in particolare a Dubai,che riguardano l’organizzazione di eventi internazionali. Inoltre svolgiamo anche attività di consulenza nei confronti di tutte quelle aziende che vogliono investire nel mondo dello sport.

In questo ambito all’estero c’è molta concorrenza e in tanti guardano con interesse all’Italia. Qual è il vostro punto di forza rispetto ai competitor?

Il calcio italiano negli ultimi anni non si è adeguato a quelli che sono gli standard internazionali, in particolare europei, di conseguenza non vi è molta concorrenza sul tema dell’internazionalizzazione del brand. Ci sono società come Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, Manchester United, Manchester City, che negli ultimi dieci anni hanno svolto un grosso lavoro a livello internazionale e hanno in molti casi duplicato il loro fatturato, cosa che invece non è accaduta in Italia. Noi abbiamo iniziato a proporre ad alcune società i nostri servizi che mirano proprio a crescere dal punto di vista internazionale. Sicuramente ci sono anche altre strutture che offrono questo tipo di servizi, ma c’è anche da dire che le società citate prima questo lavoro se lo sono fatte da sole a partire da 10, 15, 20 anni fa.

Sul tema dell’internazionalizzazione delle attività di marketing, alle società italiane manca una vera e propria strategia?

Diciamo che il grosso del lavoro non è stato fatto e si sta iniziando adesso a pensarci; una soluzione ottimale sarebbe che questo lavoro lo facesse la Lega Calcio. Ad esempio a Singapore, dove noi lavoriamo, c’è un ufficio della Bundesliga che si occupa di promuovere il loro prodotto calcio. Ci sono società di calcio italiane che hanno un numero importante di tifosi, o comunque persone che seguono le partite del campionato italiano, che però non sono collegati alle società, come lo sono invece quelli di altri club europei. Se prendiamo i bilanci dei top club calcistici vediamo come nel fatturato del Real Madrid, società leader con oltre 500 milioni di ricavi, quasi il doppio di quelli della Juventus prima società italiana, una componente importante di introiti deriva da attività di marketing, merchandising e commercializzazione di prodotti all’estero. In Italia queste attività sono limitate e alle società italiane, nel confronto con le big europee, manca questa fetta importante di ricavi. Tutto questo si ripercuote poi anche sull’aspetto sportivo e in particolar modo sul calciomercato, avendo le società italiane meno soldi da investire per allestire rose competitive, con conseguenza anche sull’appeal del marchio.

Si parla molto dell’esigenza di avere stadi di proprietà, un asset molto importante per le società, ma concentrandosi solo su questo aspetto non si rischia di perdere il “treno” delle sponsorizzazioni che sta portando ricavi mostruosi nelle casse dei top club europei?

Non parlerei di treno perso ma più che altro di un treno da prendere. Siamo in ritardo sotto questo punto di vista ma possiamo recuperare cercando di coprire il ritardo accumulato. Lo stadio è un asset importante perché permette di incrementare i ricavi, come ad esempio ha fatto la Juventus che si è costruita il suo impianto. Quello degli accordi commerciali è un treno sul quale bisogna puntare, ci sono aree geografiche dove troviamo aziende interessate ad investire nel calcio italiano, perché in fondo, anche se ha perso un po’ di appeal, resta comunque un buon calcio e un buon prodotto.
C’è bisogno di iniziare a lavorare intensamente e in maniera veloce cercando anche di “copiare” quello che hanno fatto gli altri, perché in fondo le cose da fare sono più o meno le stesse, non c’è da inventarsi cose nuove, occorre sviluppare attività di marketing, creare le academy, utilizzare commercialmente i calciatori in attività, così come le star del passato, organizzare delle amichevoli all’estero, non mirate esclusivamente all’incasso del match. Negli ultimi anni le grandi società italiane hanno iniziato ad effettuare delle vere e proprie tournèe in giro per il mondo ricavando soldi da queste operazioni. Noi abbiamo fatto diverse analisi molto dettagliate in merito a questo argomento, grazie anche al fatto di avere basi in giro per il mondo che ci permette di offrire servizi utili per cercare di riagganciare quel treno di cui parlavamo prima. C’è da fare un lavoro sul territorio che possa garantire opportunità per far crescere l’appeal dei brand.
Parlando ad esempio di sponsor sulle maglie delle società di calcio, noi vediamo che le squadre inglesi, ma anche il Barcellona, hanno come jersey sponsor brand internazionali, mentre i top club italiani come Inter e Juventus hanno partner per così dire “interni” come Jeep e Pirelli, mentre solo il Milan ha un partner internazionale come Fly Emirates.

Prendendo proprio l’esempio di Fly Emirates, come spiega il fatto che il PSG pur essendo un club meno vincente del Milan ha sottoscritto un contratto di jersey sponsor con cifre nettamente più alte?

Perché il PSG, così come gli altri club citati prima, gode di un appeal internazionale. La squadra viene seguita non solo nei confini nazionali ma anche in tante altre parti del mondo, di conseguenza una multinazionale preferisce abbinare il suo brand a una squadra che ha un forte appeal mondiale per avere una ricaduta positiva non solo a livello di immagine ma anche di rendita diversa. Il Milan anche se ha un prestigio maggiore dal punto di vista sportivo, non ha la stessa notorietà di club come ad esempio il Manchester United. È stato stimato che i Red Devils hanno un bacino di tifosi che oscilla intorno ai 600 milioni, che loro hanno profilato, analizzato, monitorato, fidelizzato. Chiaramente un’ azienda preferisce investire dei soldi dove può avere un maggior seguito e soprattutto maggiori opportunità.
L’internazionalizzazione è una porta che non si può non aprire; per le società di calcio è ormai fondamentale.

Una maggiore internazionalizzazione della Serie A porterebbe anche ad un aumento dei diritti televisivi.

Certamente. Spesso leggiamo che con i diritti televisivi si cerca sempre di portare a casa più soldi possibili, ma non sempre è possibile. La Premier League incassa ogni anno, almeno allo stato attuale, circa 550 milioni di euro dai diritti televisivi esteri; in Italia la Serie A ne incassa 117 milioni. Sul fronte prettamente sportivo è vero che il campionato italiano vale meno rispetto a quello inglese ma di sicuro non un 1/5. Gli inglesi sono stati bravi nel fare in modo che ci sia una richiesta di diritti televisivi in tutto il mondo. Ad esempio se in Indonesia non vi è richiesta di abbonamenti per vedere la Serie A, la tv indonesiana non spenderà più di tanto per acquistare i diritti. Essendoci una richiesta maggiore per vedere la Premier League, si è disposti a spendere maggiormente.

In Italia non esiste ancora un vero e proprio mercato dei naming rights, vi proponete di entrare anche in questo segmento?

È tutto un segmento unico, non è una questione di vendere qualcosa, è la differenza che esiste tra marketing e commerciale. Non è una questione di chi è più bravo a vendere, perché bene o male gli standard sono quelli lì. Oggi, così come in Italia il prezzo di una scritta su una maglia è più basso rispetto ad altri in Europa, la stessa cosa vale per le sponsorizzazioni che riguardano lo stadio. Il commerciale è bravo nella misura in cui l’ufficio marketing dell’azienda per la quale lavora crea i presupposti per aumentare il prezzo di vendita. Per vendere meglio occorre ridare più valore al calcio italiano, a quel punto tutte queste componenti potranno avere degli aumenti di ricavo significative.

Il calcio italiano è stato sopravvalutato dal punto di vista dei naming rights? Altrimenti come si spiegano le difficoltà riscontrate nella ricerca di un venue sponsor?

Perché la Juventus, anche se ha creato delle solide basi, non ha ancora completato quel lavoro di crescita a livello internazionale. Se non si crea un’ utenza supplementare, se non ci si apre a nuovi mercati, non si può vendere un naming di uno stadio a certe cifre. Le condizioni attualmente portano a cifre più modeste rispetto ad altri sodalizi europei.


Ad esempio c’è una realtà inglese che è quella dello Swansea che, pur non essendo una big della Premier League, ha effettuato un grande lavoro negli ultimi dieci anni che gli ha permesso di raggiungere un fatturato di oltre 100 milioni, creando interesse nei confronti del club non solo in patria ma anche all’estero.

Recentemente la Gea ha partecipato ad eventi nel continente asiatico, dove è in forte crescita l’interesse per il calcio europeo e in particolar modo quello inglese. Può essere redditizio per le società italiane siglare partnership regionali?

Certo! È una strada, quella dei cosiddetti “Local Sponsor” che bisogna assolutamente percorrere. È facile trovarli in quelle aree dove c’è un interesse reale da parte della gente nei confronti di un prodotto, e nel caso del calcio italiano, nei confronti di società come Milan, Juventus, Inter, Roma ecc. Un’azienda che ha interessi in India si legherà a un club quando ci sarà un seguito in quella regione, altrimenti sarà difficile stringere questo tipo di accordi commerciali.


I grandi club europei negli ultimi dieci anni si sono dati molto da fare sotto questo punto di vista. Il Manchester united ha dato il proprio marchio in licenza a 200 aziende nel mondo e da tutte riceve dei soldi. Il concetto deve essere quello di avere un determinato numero di sponsor globali e poi tutta una serie di partner locali. Noi abbiamo partecipato ad un evento in India, Goal 2014, il secondo convegno sul calcio indiano, in cui eravamo gli unici italiani a differenza dei numerosi rappresentanti di Real Madrid, Barcellona Tottenham, Manchester United e altri. In queste occasioni il calcio italiano non può non essere presente, deve esserci, altrimenti sarà difficile entrare in questi mercati.

Il rapporto che instaurate con le società di calcio prevede anche l’inserimento di vostre risorse all’interno dell’area marketing del club?

Per attività di consulenza sì, nel senso che per fare questo lavoro ovviamente c’è bisogno che le aree marketing dei club siano ben strutturate. Noi offriamo la possibilità che nostre persone operino in stretto contatto con le strutture interne della società. Sicuramente non c’è bisogno di avere duecento persone all’interno di un’area marketing e neanche che i club si mettano ad assumere un numero sproporzionato di risorse. Deve essere un processo graduale, ma pian piano le società si struttureranno in base alle proprie esigenze, magari anche affidandosi a società esterne come la nostra che mettono a disposizione risorse specifiche.

Come società avete deciso di non occuparvi più di procure e calciomercato, ma mi permetta di chiederle, cosa ne pensa del nuovo regolamento sugli agenti FIFA?

Gli azionisti della Gea World sono agenti FIFA, singolarmente per conto loro fanno i procuratori e quindi è il loro mestiere e lo fanno direttamente, poi sono anche azionisti della GEA. Io credo che questo è un problema che non è legato solo a questo sistema, io penso che il lavoro debba essere svolto da chi è capace a farlo, creare degli ordini lascia un po’ il tempo che trova, per cui se io sono una persona che sa fare bene un lavoro, che ha credito sul mercato e si conquista uno spazio, ben venga. In Italia ci sono almeno 800 persone che hanno preso il patentino FIFA ma poi alla fine sono pochi quelli che lavorano, che sono bravi e che riescono a sviluppare bene il proprio lavoro.

Come nasce il progetto del Samsung Galaxy Team per le Olimpiadi di Sochi?

Samsung è uno sponsor worldwide delle Olimpiadi e noi siamo loro consulenti per quanto riguarda le loro attività sportive. Spesso una multinazionale affida su un determinato territorio l’iniziativa di creare un team per promuovere o sponsorizzare un prodotto, un brand o altro. Nel caso del Samsung Galaxy Team la nostra attività è stata quella, insieme all’ufficio marketing di samsung, di scegliere gli atleti giusti. Visti poi i risultati conseguiti a Sochi, dove ben 6 delle 8 medaglie sono state vinte da atleti del team, direi che abbiamo dato una grossa mano nel fare delle scelte intelligenti.

Per supportare gli atleti a fine carriera avete ideato il Gea Tutor, di cosa si tratta?

Il tema del fine carriera è molto delicato. È un problema mondiale che riguarda atleti di ogni nazionalità e non viene trattato seriamente e soprattutto in anticipo, nel senso che gli atleti non vengono preparati durante la loro carriera a quello che poi sarà e a quello che faranno una volta terminata la carriera agonistica . Noi abbiamo sollevato il problema e continueremo a farlo, e, a tal proposito, abbiamo organizzato un convegno che faremo tra qualche mese invitando anche persone di altri paesi a discutere di questo tema e a trovare delle soluzioni. Noi abbiamo creato un team del quale fa parte un esperto delle risorse umane, una psicoterapeuta, un commercialista, un avvocato, un esperto di nutrizione e un medico dello sport a disposizione degli atleti che vogliono accedere a questo programma. Questo per noi non è assolutamente una fonte di ricavo anzi è e sarà sempre un’attività su cui i nostri azionisti investiranno. Ad esempio viene messo a disposizione degli atleti un pacchetto iniziale di 20 incontri nei quali si vanno ad affrontare una serie di problematiche anche abbastanza comuni, come ad esempio stipulare un mutuo, che a noi può sembrar facile, ma non lo è invece per un’ atleta che per anni ha vissuto in un contesto chiuso come quello dello sport. Un’ atleta a 35/38 anni quando termina la sua carriera, si trova davanti un cambiamento importante al quale deve prepararsi in anticipo.

Intervista di Giuseppe Berardi


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